DIETER BAUMANN





ENTREVISTA


NONNO JUNG
Lo psichiatra nei ricordi del nipote
Intervista esclusiva a Dieter Baumann

( "La Stampa", Augusto Romano, 24/06/99 )



Dieter Baumann è il ni­pote di Jung e il solo della famiglia che, come il nonno, abbia scelto la strada della psicoanalisi. Sono venuto a intervisarle a Böllingen, sul lago di Zurigo, nella casa-torre che Jung progettó e fece costruire per i suoi ritiri. Prima di cominciare, andiamo per colline a comperare dai contadini le rape e le patate che lesseremo insieme al bollito sul fuoco a legna del grande caminetto. Quando stiamo per aprireil cancello di legno da cui si accede al vasto e incolto giardino che circonda la casa, scorgiamo per terra una splendida volpe, morta. Baumann, che ha un senso religioso della natura, mi dice che è assolutamente necessario sepellirla e solo a fatica acconsente alla proposta di farlo dopo l'intervista (quando usciremo, dopo aver chiacchieratto e mangiato, la volpe sarà scomparsa).


In questo atteggiamento mi sembra di riconoscere non solo lo stile personale di Bauman ma lo spirito che egli condivide con Jung e che ha ispirato questa costruzione bizzarra e irrego1are, priva di luce elettrica e di acqua corrente (suppliscono candele, lucerne, il fuoco dai camini, la leva del pozzo azionata a mano). Uno spirito del tutto indifferente al ridicolo, giacché ci sono cose infinitamente più importanti del ridicolo, delle buono maniere e della civile conversazione in cuí ogni entusiasmo si estenua sino a smarrirsi. La frase che recentemente George Steiner rivolgeva ai giovani. "Non mercanteggiate le vostre passioni", appartiene a quell'universo di discorso nel quale trova posto l'iscrizione latina che più volte Jung ha scolpito con le sue mani sulle pietre di questa casa: "Vocatus, atque non vocatus, Deus aderit". Non si deve sfuggire al proprio demone.


Baumann è una specie di grande orso, alto, leggermente curvo, dallo sguardo penetrante, con un vestito stazzonato e fragorose risate infantili; quanto di più lontano dalla borghese medietà. Assomiglia singo1armente, o1tre che al nonno, a questa casa labirintican di cui non si vede la fine, e in cui si intrecciano vari percorsi: quello svizzero tradizionale, ma anche quello del gioco infantile, quello gnostico, e una especie di ragionata follia che tutti li tiene insieme. Incredibilmente, non è una costruzione Kitsch. Se il Kitsch corrisponde al volere e non potere, la personalità di Jung che interamente la impronta di sé mostra qui quella imbarazzante capacità di prendere sui serio e di portare sino in fondo le proprie intuizioni ed emozioni, che esclude ogni cedimento alla me­lassa del Kitsch.


Dice Baumann: “In Jung l'astratto, le idee, non erano mai separate dall’inmediato, dal concreto, dalle emozioni. Era un uomo molto semplice, un contadino. Mi ha insegnato a vangare, quando ero bambino, durante la guerra, e bisognava piantare le patate. Mi ha anche insegnato a scolpire la pietra. Una volta abbiamo sco1pito insieme un dio pagano. Bisogna metterlo sul davanzale della finestra, è un dio che scaccia le nuvole, un dio del buon tempo... Jung era una persona intensa, perché il suo comportamento, il suo corpo e quello che diceva andavano sempre insieme.


Anche quando pensava in astratto, cosa che sapeva fare molto bene, sentivi che era completamente presente anche col corpo, a differenza di certi tipi intellettuali, anche fra noi analisti, che sembrano vivi solo a partire dalla testa e sotto sono completamente rigidi. La sua psicologia era il suo vissuto. Cercava sempre di aderire ai fatti".


Baumann è una delle non molte persone viventi che hanno frequen­tato Jung lungamente, dato che alla sua morte aveva oltre 30 anni. Quali i suoi ricordi più forti?


“Ricordo la sua concentrazione, quando era sedutto sulla sua poltrona e si discuteva; rifletteva e intanto tirava la pipa o il sigaro, e mentre faceva buio la brace diventava più ardente. Questo era uno dei modi in cuí si manifestava la sua intensità. Ma era anche molto intenso quando si arrabbiava. Poteva essere impresionante.”


Pensa che questa violenza sia l'Ombra di Jung, il suo limite umano?


"Jung ha affermato di se stesso, credo in una lettera, che il suo sentimento era un mostro. Noi sappiamo dalle sue ricerche che la funzione inferiore, quella meno sviluppata, la piú arcaica, é mostruosa, eccessiva, violenta. Per esempio, poteva dare dei giudizi di sentimento troppo drastici e generalizzati. Sapeva peró tornare indietro e ristabilire una certa distanza".


A proposito di Ombra, che a teggiamento aveva verso la sessualità?


"Non c'era in lui una mistica della sessualità, come in Freud, Jung é cresciuto in un paese di pescatori e di contadini, e sin da bambino assisteva agli accoppiamenti di tori e mucche. Vedeva la sessuaIitá come una forza della natura. Non c' era in lui niente di asessuato, non evocava la sterilità di chi evita la sessualità; no, in lui essa faceva parte del tutto. Certo, parlava in modo completa­mente diverso con una donna che con un uomo. Faceva un po' la corte, era seduttivo, o la prendeva anche in giro, ma gentilmente.”

Ho l'impressione che i suoi rapportí con gli uomini siano stati più difficili.

“Posso rispondere in modo indiretto. Una volta un collega della mia generazione voleva andare in anli­si da Jung, e lui gli rispose: “Senta, sono troppo vecchio, non ho l’ener­gia; ma anche se l’avessi, non la prenderei in analisi". L'altro, stupito, gli ha chiesto perché e Jung gli ha detto qualcosa come: “Perché la mia creatività impedirebbe la sua".


Torniamo alla sua infancia.


“Durante la guerra, nel ‘40, c'era la minaccia di essere invasi dai tedeschi. Gli uomini erano tutti al servizio militare. Jung che era sulla lista nera dei nazisti ha dovuto sfollare e noi nipo­ti, con la nonna, le mam­me e le zie, siamo andati con lui nel Bernese. Al mattino, il nonno veniva con tutti noi bambini fino a un torrente vicino, ci faceva raccog1iere dei sas­si e ci ha costruito un castello megalitico. Dopo­ la passeggiata, dava lezio­ni di latino a mía cugina e a me. La sera, dopo cena, si riuniva con le figlie e la nuora e leggevano la Bib­bia insieme. Credo che lo facesse per evitare i1 panico, par fare qualcosa che avesse un senso. Certo, i1 castello lo costruiva per farci giocare, ma era anche un lavoro simbolico: un ­ castello su di un pezzo di roccia in mezzo a un torrente. E' proprio quello di cui avevamo bisogno”.

Jung era credente?

“Non nel senso corrente. Era un uomo profondamente religioso, che guardava a ciò che' di divino è nell'uomo. Nella sua interpretazione psicologica del dogma della Trinità affermò che la prossima tappa di sviluppo della Trinità sarebbe stata la rivelazione dello Spirito Santo a partire dall'uomo stesso. Egli sape­va che questa è una cosa molto pericolosa perché comporta i1 ri­schio dell'infIazione psichica. L’inflazione del superuomo, la sopravva­lutazione dell'intelletto e della tecni­ca, con tutta la tracotanza, la ubris distruttiva, che oggi conosciamo. E difatti scrive di non dimenticare mai che noi siamo soltanto la stalla in cui sta nascendo un nuovo Signore. Questo è fondamentale, perché permette di apprezzare i1 divino che é in noi senza identificarci con esso. Comunque, la sua immagine di Dio era molto piú ampia rispetto all’immagine tradizionale del Cristianesi­mo. Nella divinità per lui è compreso anche il male, e i1 femminile, e la rivelazione a partire dall'uomo stesso”.­
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Jung, come Freud, apparteneva all’epoca del pionieri, e quindi partecipava anch’egli di un certo ottimismo. Le speranze suscitate dalla psicoanalisi si sono oggi ridimensionate.” Un libro pubblicato recentemente si intitola “Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio”. Cosa ne penserebbe Jung?

“Lo vedeva già lui, e ne era rattrista to perché, a suo parere, l’uomo ha bisogno di molta psicologia. Sapeva che il vero pericolo é nell'uomo, nella sua anima. Se non ci rendiamo ­conto di questo, diveniamo preda dell'inconscio. Ricordo che una volta mi disse che il nostro sviluppo fisico, inteso come possibilità di spazio per il cervello, era arrivato al massimo e che non era più il momento di continuare a svilupparci verso l’esterno, conquistando estroversamente, ma dovevamo muoverci verso l'interno. Da questo punto di vista, egli ha concepito la sua vita come espiazione dell'atteggiamento faustiano che vuole la conquista della natura e il suo asservimento, strumentalizzatione della natura piuttoste che la conoscenzá dalla propria natura”.


Quale era, tra le sue idee, quella a cuí teneva di piu?

“La necessità di divenire conscì”.

Malgrado egli dia tanta importanza all'inconscio?

“Proprio per questo. Perché conoscere re il ruolo dell'inconscio permette di capire con quali forze si ha a che fare. E se tu le riconosci, sai meglio come comportarti. D'altra parte, è pur vero che il conscio è già nell'inconscio e nasce dall'inconscio. Per esempio: se uno sogna e incontra nel sogno una persona che gli dice qualcosa che egli ancora non sa, questa persona da chi l'ha saputo? A chi appartiene quella consapevolezza? Da questo punto di vista, si può dire addirittura che, quando interpretia­mo i sogni, in rea1tá non interpretia­mo i nostri sogni ma aiutiamo i nostri sogni ad interpretare noi”.

I pericoli dell'inconscio si ma­nifestano all'interno stesso del­la prassi analitica.


“Il pericolo è usare la psicoanalisi a fini di potere, perché essa ti dà una chiave por capire delle cose, e di ciò si può fare un uso improprio. Anche il lavoro creativo ne risente. Del resto, si osservano lotte di potere anche fra gli junghiani..”

E' di nuovo il tema dell'Ombra, del maIe che é in noi. MoIti hanno detto che 1'esigenza di accettare l'Ombra rischia di favorire la relativizzazione di bene e male e dunque la perdita del senso dei valori.

“Ci sono passi in cuí Jung afferma che, anche se si accetta l'Ombra, un pecatto rimane un pecatto. Questo significa che non si può aggirare (Baumann dice escamoter) il senso mora1e. Il senso morale, la reazione morale, resiste, e usare la psicologia per rimuoverlo è un abuso”.

Vuoi dire che sempre bisogna pagare un prezzo?

“Certo. Direi che in questo campo è anzitutto importante non rimuove­re, nel senso di proiettare all'esterno,­ il male che è in noi stessi. Se una persona lo rimuove, si considera innocente. Questo è un Kitsch terribile di grande sentimenta­lismo (dice proprio così, in italiano). Chiunque affermi di essere innocente è di una stupídità abissale. E' la trappola di credersi definitivamente nel giu­sto. Noi sappiamo che l'Ombra è ciò che potenzialmente potrebbe essere conscio e che viene appunto tenuto in ombra perché disturba la luce, l'unilateralità della nostra luce. Ciò che va integrate è dunque­ la consapevolezza del male. Assimilare l'Ombra non vuol dire fare tutto quello che mi passa per la testa, ma anzitutto rendermi conto di ciò che mi passa per la testa e poi prendere una decisione etica con conoscenza di causa. E se devo fare un compromosso con il male, essere disposto a pagare il prezzo corrispondente".

A proposito del male, di quando in quando si pubblicano articoli sui rapporti tra Jung e il nazismo. Lei cosa ne sa?

“La tesi di una collusione tra Jung e il nazismo è stata già confutata da molti. Io provo a dire ciò che so personalmente. Jung mi ha racon­tato che nel l935 è stato per l’ultima volta a Berlino, dove ha fatto delle conferenze, nelle quali parla in mo­do indiretto del nazismo e ne segna­la il pericolo. Nella pausa dopo la conferenza. o dopo il pranzo, gli hanno chiesto cosa pensasse della svastica. Lui ha risposto che in India ce ne sono di due tipi, una che gira verso destra e porta alla vita, e una che gira verso sinistra e porta alla morte. Quella nazista corrispondeva alla seconda. Allora gli hanno detto: “E' una cosa molto interessante, ci deve racontare di più...”. Lui ha sentito che la sittuazione diventava perico1osa, è uscito, ha raccolto i suoi bagagli, ha presso il primo treno por Zurigo e non più tornato in Germania. Ricordo anche un suo allievo, un medico tedesco, che era qui nel '37 o '38. Éravamo con lui in auto, mia nonna ed io, e lui ha cominciato a parlare come un nazi­sta, e mia nonna né è stata completamente choccata. Più tardi, quello stesso uomo ha scritto una cartolina a Jung da Parigi, occupata, e mio nonno era sdegnato, furibondo. Il giorno che é scoppiata la guerra, Jung è andato dai vicini, con me e mio fratello, a sentire il discorso di Hitler alla radio. E dopo, lo ricordo come se fosse ieri, ha detto che Hitler era un criminale. Durante la guerra, una delle, sue allieve ebree ha fatto la segretaria per lui, Si parlava ogni giorno di política e della guerra: era completamente contro i nazisti”.

Venendo ora alla nostra profes­sione, cosa pensava Jung delle altre scuole analitiche?

“Durante un seminario un analista freudiano gli ha chiesto se lui ritene­va valido il metodo freudiano. La risposta è stata: “Ogni metodo è valido purché colui che lo applica ne sia onestamente convinto”. Quando poi gli hanno chiesto quale era il suo metodo in casi di depressione, ha risposto che non era questione di metodo e che, in sostanza, il modo di fare terapia si sviluppa a partire dall'incontro tra il terapeuta e il paziente”.

Nelle scuole analitiche oggi si notano due tendenze. Da un lato si moltiplicano le società analitiche che sí rifanno allo stesso pensiero, per esempio a quello junghiano; dall'altro, scuole analitiche di diversa ­ origine si avvicinano tra loro, come accade in Inghilterra tra junghíani e kleiniani.

“La prima tendenza mi sem­bra un fenomeno naturale. L'opera di Jung è un albero con molti fiori ma anche con molti germogli. Tutto va bene quando c'è tolleranza. La cosa comincia a diventare velenosa quando si tratta l'opera di Jung con pretese di exclusività,come se ci fosse un solo modo di interpretare la sua doctrina. Jung stesso ha sempre riveduto i suoi libri ed era anche pronto a rivedere le sue teorie. Quanto al secondo fenomeno, ho partecipato più volte a confronti tra scuole. Non c'è stata mai nessuna frizione, perché avevamo uno spirito comune. Certo; non bisogna confondere i punti di vista”.

Concludendo, il suo rapporto con Jung le permette di dire quale mito egli propone all'uomo­ di oggi?

“Se Jung propone qualcosa, è che ciascuno segua il proprio mito. E' una cosa importantísima. Ogni tan­to mi imbatto in sogni di pazienti che mi sembrano esprimere il mito di quella persone. Sono sogni che per fortuna dimentico presto. Essi non dovrebbero essere racontati a nessun altro, perché sono la sostan­za di vita di quelle persone. Ci sono cose che una persona non deve raccontare, perché appartengono al suo mito. Ho conosciuto persone che chiacchieravano troppo di sé, e in un caso ho avuto l'impressione che un uomo si sia per cosi dire chiacchiera­to a morte. Non amo certe psicoterapie di gruppo, in cui i partecipanti vengono incoraggiati a dire tutto e sono assaliti se non parlano. La mancanza di rispetto rende queste pratiche distruttive”.


Più tardi, quando Baumann mia acompagna a visitare la casa, vedo sugli scaffali i molti libri gialli (Wal­lace, Rex Stout, Stanley Gardner..), di cuí Jung era accanito lettore; in soffitta i resti dell'equipaggiamento con cuí, negli Anni 20, aveva attra­versato l’Africa fino al massiccio del monte Elgon; e un po' dovunque i suoi policromi dipinti simbolici.


Mentre usciamo ella ricerca della volpe che non c'e più. Baumann ancora mi parla di quelli che Jung definiva i suoi waterworks: «Sin dalla mia infanzia ricordo il nonno intento a questo lavoro. Vicino al lago scavava il terreno per isolare certi piccoli rivoli d'acqua e farli converge­re in un unico canale, che drena l'acqua del terreno. Un anno prima della sua morte, quando io avevo già 33 anni, l'ho ancora visto fare lo stesso lavoro. Aveva una racchetta da sci, alla cui estremità aveva attac­cato una paletta, come quelle dei bambini, e con questa paletta toglie­va i sassolini che impedivano il flusso dell'acqua. Si divertíva, poteva stare li per delle ore. Una volta in uno di quei canali l'acqua era torbida ma un afluente portava dentro acqua limpida. Alla confIuenza quest'acqua limpida, entrando nell'acqua torbida, formava dei bellissimi disegni, lo gliel'ho fatto notare e lui mi ha detto: “Si, questa è l'influenza”. Alludeva al significato etimologico della parola: una cosa che fIuisce dentro un'altra. Questo forse si connette all'inizio della nostra chiacchierata, quando ho detto che Jung era un uomo intero, presente con tutto se stesso in ciò che faceva. Anche in questo caso il concetto astratto - l'influenza - e la cosa concreta che lo genera sono una sola realità. L' astratto mostra sempre le sue radici nel tangibile. Questo era Jung”.
Augusto Romano.



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Diálogo entre el Dr. Dieter Baumann y el Dr. Carlos Menegazzo

(Este diálogo tuvo lugar en el consultorio del Dr. Dieter Baumann. Zurich, 3 de febrero de 1998)



El Dr. Dieter Baumann, especialista en mitos y nieto de Carl Gustav Jung, nos habla de sus recuerdos familiares y de la vitalidad creativa de los pequeños grupos de investigación, dedicados a la Psicología Analítico Sintética.

Dr. Menegazzo: La Practica de la Psicoterapia Analítica Sintética, el Pensamiento Junguiano y la Teoría de la Psicologia Analítica fueron introducidos en Argentina, allá por 1925, por la Dra. Ellen Broden de Katz, discípula directa de G.G. Jung, y se fueron desarrollando poco a poco en el cenáculo de un pequeño grupo de estudio integrado, entre otros, par el Dr. Helvio Izurieta, mi maestro. Esta es, sucintamente, nuestra historia al sur del sur.

Hoy, como entonces, sigo creyendo, por mi experiencia de todos estos años en el trabajo con orientación Junguiana, que el pequeño grupo es el ámbito mas adecuado, (quizás el único), para organizar una eficaz resistencia a la actual 'cultura del mercado' y sostener el rescate del amor, la solidaridad y el cuidado, e impedir que el poder del sometimiento lo destruya todo, inclusive en nuestros cenáculos de estudio y formación.

Dr. Baumann: Si, ante tales hechos del poder, viene a mi mente un suceso de mi experiencia. Cierta vez me dijo el mismo Jung, guiñándome un ojo: 'Por suerte soy Jung y no un junguiano'.

M: Seguramente por su buen sentido del humor.

B: A él no le gustaba ser puesto en un pedestal; lo que si le gustaba era estimular a todo aquél que quería seguir su propio camino creativo. Se ponía muy contento si encontraba una resonancia a toda su investigación. Le había llevado muchos años de trabajo escribir su vasta obra. Le daba alegría estimular a otros a tener el valor de continuar el propio camino de individuación.


M: ÉI creía, como Krishnamurti, que el verdadero maestro está dentro de uno mismo.

B: He hecho análisis con Marie Louise von Franz, a quien debo muchísimo. Recuerdo que una vez tuve un sueño, que ella supervisó con Jung, quien todavía vivía. Usted conoce mi parentesco con Jung,
¿verdad?. Sentía un gran cariño hacia mi y un gran cuidado hacia mi proceso. ÉI nunca me forzó. Cuanto
más uno se desarrolla en su creatividad, menos necesidad tiene de empezar a influenciar a los demás, y mucho menos de oficializar el camino que uno ha hecho.

Recuerdo algo que dijo Jung en Mysterium Coniuntionis: escribe que el 95% de la gente se divierte jugando juntos a 'El pastor y sus ovejas', lo cual no tiene nada que ver con la búsqueda del 'si mismo' profundo. Todos estos institutos y escuelas tienen el mérito de difundir, de hacer puentes, pero cuando desarrollan una ideología pueden caer en el dogmatismo.

M: Terminan en el fundamentalismo. Diría que si uno no participa en estas corrientes con sentido del humor, el propio camino se termina cerrando.

B: Nosotros tenemos desde 1983 un grupo informal de amigos, fundado por la Dra. von Franz y otros que han dado su estimulo, entre los cuales hay algunos colegas italianos. No tenemos ninguna estructura ni presidente, solamente nos reunimos y cualquiera de nosotros presenta un trabajo que ha escrito o alguna investigación que esta realizando y luego lo discutimos entre todos. Si algún extranjero entrara allí nos encontraría totalmente caóticos. Pero esto funciona y es muy bueno. También en Milán es muy bueno poder enseñar a trabajar de este modo, coma huésped de Adriana Mazzarella. Por ejemplo, cuando alguien esta haciendo una investigación, puede tomarse todo el tiempo necesario y no tiene que comprimir su trabajo en un lapso determinado o una estructura formal. Sin compulsiones externas se puede seguir discutiendo todo lo que sea necesario, lo cual es verdaderamente un privilegio.

En 1964 hice un viaje de conferencias a Estados Unidos, allí estuve en pequeños grupos de este tipo muy vivos y creativos.

M: Es mucho mejor conformar una red de pequeños grupos que intercambian trabajos antes que una macrosociedad, donde siempre, tarde o temprano, termina haciendo mucho ruido la competencia por el poder.

B: De este modo, en lo pequeño, se formaron grupos junguianos vitales y profundamente estudiosos con los cuales trabajé y supervisé, que no están aceptados par la Sociedad Internacional y, sin embargo, son muy inquietos y creativos e investigan, crean y se autogestionan.

M: Si bien usted me comentaba que su abuelo cuidó mucho la libertad de su formación y el desarrollo de su creatividad, ¿le fue difícil para usted ser el nieto de Jung?

B: Si, fue muy difícil. AI principio, de estudiante, durante muchos años me resistía a leer los libros de él. Recuerdo que una vez le pregunté: - ¿Por qué tengo, a veces, tanta resistencia a leer tus cosas? Y él, sonriendo me contestó: - ¿Y quién dijo que las tienes que leer?

En los años en que estaba en plena búsqueda, si yo daba una conferencia, no quería que dijesen que era
nieto de Jung. Después me he reconciliado. Cuando comencé a hacer mi propio trabajo creativo no me hice mas problema. Incluso, hablé este tema con el mismo Jung, en una ocasión en que yo tenia que leer una conferencia suya y sentía que me identificaban con él. ÉI me dijo: - “Tu no tienes ninguna necesidad de identificarte conmigo. La puedes leer y después, si la quieres confirmar, esta bien, y si no, puedes decir tus ideas diferentes. “ Me dio mucha confianza en mi propio juicio.

M: Fue muy coherente con su forma de ser y de pensar, promoviendo la libertad del otro.

B: Y esto fue un privilegio. Yo, antes de la guerra, vivía en Paris con mi familia e íbamos de vacaciones a Suiza. Las ultimas vacaciones partimos de Paris el 27 de agosto de 1939. Yo tenia doce años y medio. Cuatro días después estalló la guerra. Entonces, nos quedamos en Suiza dos o tres semanas con mis padres. Luego mi papá volvió a Paris, donde permaneció por un tiempo, incluso bajo la ocupación, porque él era director de una firma Suiza allá. Se decidió que mi madre se quedara con sus padres y con nosotros, los cuatro nietos - mas tarde fuimos cinco - en Suiza. Yo viví tres años en casa de mis abuelos Jung y veía a mi abuelo todos los días. Naturalmente, él tuvo una gran influencia en mi en los años de pubertad. Me estimuló mucho, especialmente en la química, que era mi pasión, incluso me prestó su libro de química (era la época en que él estudiaba alquimia). También me apoyó mucho en el estudio del idioma griego.

M: A usted le sucedió algo parecido a lo que sucede en la crianza de los chicos de la cultura Tupi en América del Sur, de la cual los Tehuelches y Mapuches son los clanes mas australes.

Esta gran familia extensa, atesora una cultura tan rica coma la griega. A los cuatro años, cuando los niñas salen del áurea de la madre, pasan al cuidado del abuelo y de la abuela, quienes les cuentan de su herencia ancestral. Sólo después de este pasaje, si se trata de un varón, pasa al cuidado del padre, para aprender con él las habilidades y destrezas de las actividades familiares. Recién mas tarde, pasa a estar a cargo de un iniciador. A usted le sucedió algo parecido con su abuelo...

B: Si, si. Tuve mucha afinidad con mis abuelos y fui muy estimulado. Tuve un gran privilegio, mi abuelo me enseñó a hachar leña, a manejar la pala, a hacer surcos en la tierra, a realizar todas esas actividades masculinas.

M: Una iniciación con la naturaleza.

B: Me enseñó también a navegar a vela. No solamente íbamos a la Torre de Bollingen cuando yo viví a en su casa, si no que estuve allí varias veces de vacaciones con mi abuelo.

M: Bollingen, ¿está en funcionamiento todavía?

B: Si, si. La frecuentamos los herederos. Ya somos más de setenta. Es un bello recuerdo.

M: Yo sé que usted se dedica mucho a los sueños y a los mitos. El grupo de Padova, estimulado par mi, esta trabajando la epopeya de Fanes en el Reino Mitico de los Alpes Dolomiticos. Estoy supervisando esta investigación.

B: ¡Qué interesante! ¿En el Alto Adige? ¿En lengua alemana, latina o ladina?

M: Ladina. Cuando leo los textos italianos de Wolf, quien fue el primero en rescatar estas leyendas desde la tradición oral latina, (ahora hay otras publicaciones de otros autores), me resulta muy interesante porque hay cosas que tienen similitud con el Grial y también con las búsquedas que estamos hacienda con las culturas americanas. Hay cosas esenciales que afloran en todas las culturas.

B: ¡Qué interesante! Aquí yo hago investigaciones de este mismo tipo parque he aprendido nuestra cuarta lengua Suiza, un idioma original 'veto romanico' que es pariente de los idiomas arcaicos originarios de los Alpes Dolomiticos; es un idioma hablado por poquísima gente en Suiza, una lengua muy bella, donde esta la figura de cierto tipo de hadas, mujeres de las cavernas y de los bosques.

M: Ricos en animales totémicos como las marmotas y las águilas.

B: También, también, y esta es otra veta.

M: Esto ultimo, especialmente entre los Fanes.

B: Me esta hablando del Alto Adige.

M: Todo esto me hace pensar a mi que, en lo que estamos investigando, hay resonancias, como si fueran ecos de la mítica Atlántida y de Hiperbórea. Hay algo que me inquieta: Usted sabe que en Argentina tenemos una gran inmigración judía que tiene una importante influencia en nuestra cultura. Para nosotros, la lengua ladina es la que siguieron hablando los hebreos de la diáspora, obligados a emigrar de la España Medieval y que reafloró en diferentes lugares de su periplo, como Turquía, Polonia y hasta en Rusia.

B: No, aquí es otra cosa. El ladino de los Dolomitas es otra casa.

M: A pesar de que estudiando estas epopeyas aparecen elementos que también hacen recordar a la Cábala.

B: Yo no sabía esto.

Por ejemplo, había una gran población hebrea en Grecia, que también había llegado de España en la época de la Inquisición y hablaban español arcaico.

M: A ese español lo llamamos ladino.

B: Entonces es esto.

M: Entre nosotros, César Wenk, un amigo psicodramatista, estudio profundamente los orígenes judíos de la cultura jasídica en Moreno y ha trabajado mucho en la cultura ladína, siguiendo todo el periplo del pueblo judío y de qué manera influyo en las culturas de los diferentes pueblos, por ejemplo en el ruso.

B: Entonces es así. Yo he tenido conocimiento de esto por un hombre que viene de América; es una cultura verdaderamente notable, paro creo que lo ladino de los Alpes Dolomiticos es otra cosa.

M: En la epopeya de los Fanes y en otros cuentos de los Alpes se ve claramente la influencia de los celtas, de las runas; se notan también sus raíces persas, pero hay rastros que recuerdan a la Cábala. Haciendo Antropología Comparada se nota que hay una riqueza impresionante en todos estos materiales. Yo encontré mitos, en cuentos italianos recopilados par Italo Calvino que tienen bastante que ver. Yo creo que también en Suiza debe haber una relación entre los mitos locales y estas otras vetas. Evidentemente hay una trama profunda que reúne todas estas leyendas.

B: Ahora, en Padova, me voy a encontrar con quien edito el ultimo libro. Es un buen tema para un coloquio. Por ejemplo, hablar de las culturas andinas, la de los Andes y la de los Alpes.

M: Mauricio Gassaeau quería hacer una reunión en el teatro griego de Segesta, en Sicilia, con Psicodrama Junguiano. Le dije, entonces, que en el 99' nosotros le vamos a invitar a una reunión en un pucará, porque el pucará es una construcción aborigen para la defensa de las invasiones. Me toco descubrir, dando clases en el Pucara de Tilcara, que la acústica tiene la misma eficacia que en el teatro de Epidauro o en el de Segesta. En vez de propagarse asombrosamente la voz en la concavidad de un anfiteatro, se propaga en la convexidad de una montaña. Los capitanes veían, desde lo alto, las maniobras del ataque y podían transmitir, hacia abajo, las ordenes en susurros.

B: ¿No hay algo así en Perú?

M: SI, en Macho-Pichu. Lo que yo no sabía era que había esto en los pucará, que están mucho más al Sur. Por eso le muestro estas fotografías, para darle una idea del lugar donde vamos a trabajar.

B: Me parece bellísimo.

M: ¿Qué les diría a los jóvenes que están estudiando a Jung y que trabajan con los propios sueños, que escuchan su interioridad? ¿ Qué les diría a los jóvenes que se están formando en Bs. As.?

B: ¿Yo? No tengo la más mínima idea, porque no los conozco. Le daría a cada uno una respuesta individual, de acuerdo a lo que cada uno me pidiera. Pero bueno, les daría coraje para que busquen las propias raíces en sí mismos para no ser arrancados de cuajo por este diluvio promovido par las mass-media. Les daría ánimo, para que rescaten su propia Anima y luego permanezcan en contacto con el Anima ancestral y su propia alma ancestral. Yo, quizás, pueda trabajar con ellos por analogía, porque enseñé en Estados Unidos durante un semestre. Trabajé en nuestro grupo la interpretación de un cuento de hadas de una tribu. Se logro una resonancia muy grande porque yo ya sabia, por Jung, que los americanos tenían tres Anima: la blanca, la negra y la aborigen. Tanto Jung, como los que analizan a los americanos saben que, en algún momento, tiene que aflorar esta veta indoamericana.

M: Y esta apareciendo.

B: ¿ También en Argentina?

M: Sí.

B: Y, además, yo diría con convicción, que la tierra donde uno crece condiciona telúricamente la propia anima, por lo menos con la misma fuerza con que lo hace la sangre. Lo sé personalmente. Yo viví en Paris hasta los doce años y, a mi, muchas veces me toman par francés.

M: A mi me pasa con la Argentina, con la Pampa, cuando descubrí a los trece y medio el horizonte verde, caí de bruces, impresionado por la naturaleza. Los impactos telúricos que uno recibe en la pubertad y en la adolescencia son importantísimos.

B: Entonces, volviendo a la pregunta, estimularía a los jóvenes en la búsqueda de todas estas cosas, para estar en contacto con la propia anima sin evadirse, pero para tener un parámetro que les permita no quedar cabeza abajo ante toda la perversidad del modernismo.

M: Creo que la gran posibilidad que abrió la Psicología Profunda es el único modo de resistencia: el
pequeño grupo y el vinculo con la maestría profunda. Le hice esta pregunta porque jóvenes de mi país saben que yo venía a este encuentro y me pidieron que le diera sus saludos.

B: Gracias. Me surge un sentimiento de mucha simpatía.

M: Lo están esperando.

Un antropólogo nuestro, que ya murió, que decía que la Argentina tenia cuatro abuelos, dos abuelos y dos abuelas; no era junguiano, por eso no hablaba de anima. Un abuelo hispano, andaluz, (al sur del sur llegó la hispanidad de los andaluces; los castellanos quedaron donde estaba el oro, en Colombia y en Perú). Un abuelo gringo, (que son todas las otras corrientes inmigratorias: italianos, ingleses, alemanes, gallegos, todo lo que es extranjero). Una abuela negra y una abuela india. Creo que América, en toda su espina dorsal, que va desde las montanas Rocosas al norte, hasta la Tierra del Fuego, al sur, esta ofreciéndose como catalizador para el encuentro de las tres culturas: Oriente, Occidente y la cultura Indoamericana.

La cultura Indoamericana aporta a las otras culturas el valor del pequeño grupo que usted señalaba, esa pequeña comunidad de pertenencia que allá, en el Sur, se lIama 'Ayllu', comunidad en la que nos podemos mirar a los ojos, tomarnos de las manos y estar cerca y conocernos. Es mejor tener muchos Ayllu, reunidos en constelaciones y redes afectivas, que tener naciones. El concepto original de nación, al sur del sur, era mas parecido al concepto de familia que de estado.

B: Una de mis hijas se casó con un indio boliviano.

M: Mi mujer trabajo en Bolivia con educadores. Aprecia mucho a los bolivianos.

B: Si, yo también los respeto mucho. Cuando son intelectuales tienen un alto nivel de formación, una gran dignidad verdaderamente ejemplar. .

También en California es así, yo he aprendido mucho de los aborígenes americanos. Tengo un gran respeto par ellos y esto me ha hecho mucho mas modesto. Ellos tienen algo que nosotros no tenemos suficientemente, una actitud religiosa frente a la tierra. Nosotros tenemos una actitud de usufructo y esta, probablemente, viene de cuando nos alejamos del culto a la Gran Madre, y ahora estamos pagando las consecuencias. Me impresiono mucho como los aborígenes americanos mantienen este respeto de que la Gran Madre Tierra y el Padre Sol están en el mismo nivel. No es que la tierra y el mundo de la Creación - por lo menos como lo he comprendido yo -, sea secundario o epifenomenal con respecto al Dios Creador.

M: Es una fuerza originaria, femenina y masculina.

B: Esto me hace acordar que en Santa Fe de México existe una escuela de arte aborigen, es una especie de Collage de Iodas las tribus americanas; lIegan aborígenes desde Alaska hasta la Florida. Allí se reúnen
artistas y hacen pintura, escultura, música, teatro, poesía, diversas actividades artísticas. He visto muchos cuadros pintados por ellos, especialmente uno que no voy a olvidar jamás: era la imagen de un indio bailando, apisonando la tierra, bailaba alrededor de una planta de maíz que tenia en la mano y que estaba por plantar en ese lugar. Estaba completamente concentrado. Mas adelante supe que ese pintor ara un indio Rupi que vivía en las mesetas de Arizona. Los indios Rupi tienen abajo, en el semi-desierto, huertas con maíz. Ellos llevan el agua en chatas o camionetas. Antiguamente el indio iba corriendo con el agua y, ante cada planta, al regarla, hacia una oración para que la planta creciera.

M: Ellos están verdaderamente inmersos en esto.

B: Y poseen una actitud muy profunda por la naturaleza, por La Diosa Naturaleza y La Madre Tierra.

M: Según algunos trabajos que pude hacer, comprendí que esos movimientos circulares tienen que ver con el eje del mundo y los espacios sagrados. Ellos dicen 'Tu eras una burbuja del Universo, pero por tu burbuja pasa el eje del mundo'.